Abbiamo avuto il piacere di conoscere Antonella Sinopoli, forte e coraggiosa donna testimone di una vita al fuori degli schemi mentali occidentali.
Antonella ha scelto di lasciare l’Italia, i suoi affetti e il suo posto di lavoro di redattore per andare a vivere in un piccolo villaggio di pescatori dell’Africa subsahariana. Come presidente di Ashanti Development Italia, Antonella ha aiutato Korai ad aderire al progetto di microcredito Yendaakyee - Il nostro futuro e a sostenere attraverso Korai x Kente le donne del villaggio di Mpantuase in Ghana.
Ma chi è davvero Antonella Sinopoli? La giornalista di frontiera? Il presidente di una Charity? Ce lo facciamo raccontare direttamente da lei.
Chi è Antonella Sinopoli?
Una donna che cerca di vivere la propria vita pienamente, cercando di scoprire se stessa e gli altri, al di là delle facciate.
Se ti chiedessi di descrivere la scala di quei principi, valori, passioni ti hanno portato ad essere la persona che sei oggi. Cosa ci sarebbe in cima alla scala e perché?
Se una cosa mi interessa davvero cerco di scoprirla e conoscerla con i miei occhi, non con quelli degli altri. Alla fine, è questa la caratteristica che ha guidato le scelte della mia vita. Quindi, quando ho fatto bene o quando ho sbagliato è stata comunque un’esperienza, mia e di nessun altro. Fatta in prima persona e sulla mia pelle, come la scelta di venire a vivere in Ghana, per esempio.
L’Africa, la culla dell’umanità. Il fascino particolare che avvolge questa terra spinge molti a desiderare di visitarla almeno una volta nella vita. Ma realmente cosa vuol dire vivere in Africa?
Per me è sempre meglio evitare i luoghi comuni e le generalizzazioni. Non esiste l’Africa, esistono tante Afriche per ogni nazione, ogni città, ogni villaggio. Ed esistono tante Afriche per ogni singola persona che la visita: ognuno dell’Africa ha la propria storia e la propria personale esperienza.
Ma l’Africa è anche un concetto, che nell’immaginario collettivo rappresenta la vita ancestrale, l’inizio dell’umanità, la “purezza” di luoghi e sentimenti. Bisogna però essere consapevoli della differenza che c’è tra mito e realtà. Perché spesso ci si lascia trasportare nel mito tralasciando il resto. Ma è quello – il resto – che ci fa abbracciare realmente questo continente. E che ci respinge o attrae. Concretamente, non nei sogni.
Il cielo di Aflasco, Ghana. Foto di Antonella Sinopoli
Perché hai scelto il Ghana, e di vivere in un piccolissimo villaggio di pescatori lontana dalla capitale più civilizzata Accra?
Io non definirei Accra “più civilizzata” semplicemente perché è la capitale, ci sono più servizi, più opportunità ed è affollata, questo sì. Oserei dire che vivere in un villaggio è qualche volta meglio. Naturalmente in un villaggio ci sono più bisogni, manca l’acqua corrente (che comunque scarseggia anche nella capitale dove capita che i rubinetti siano a secco) e manca spesso l’elettricità (lo stesso ad Accra dove i pali della luce e le allacciature ci sono…). Per tornare alla domanda: sono arrivata in Ghana per la prima volta nel 2010 – dopo altre esperienze in Paesi africani dell’East Africa – per girare un documentario riguardante i progetti di microcredito di una Charity anglo-ghanese, Ashanti Development. È finita che ho aperto la sede italiana della Charity e cominciato a cooperare su altri progetti ancora. Lavoriamo nella Regione Ashanti, ma io ho deciso di vivere sulla costa (quando non sono nei villaggi Ashanti per seguire i progetti). In questo piccolo villaggio di pescatori nella Regione del Volta sto facendo una grande esperienza di vita.
Villaggio di Aflasco Ghana - Foto di Antonella Sinopoli
Spiaggia di Keta - Foto di Antonella Sinopoli
Cosa significa per una donna vivere in Ghana? Quale ruolo ricoprono le donne nel Paese? In particolare cosa puoi raccontarci della tua esperienza personale come donna?
In Africa le donne sono quelle che lavorano di più. Beh, in realtà non vedo la differenza con altre parti del mondo, anche se qui è davvero una gran fatica. Basta farsi un giro nei mercati – in Ghana come in altri Paesi africani – per capire chi tiene in piedi l’economia del Paese, soprattutto quella che serve per portare avanti le famiglie. Io qui non ho mai avuto problemi particolari in quanto donna. A parte le frequenti e inopportune richieste di matrimonio. In Ghana il problema non è essere donna, ma essere bianca. I bianchi sono automaticamente considerati ricchi. Spesso da imbrogliare, e quelli che vogliono metterla in politica dicono che lo fanno per rivalersi del fatto che l’Europa li ha sfruttati nel periodo della tratta degli schiavi e della colonizzazione e continua a farlo ancora oggi.
Come trascorre la vita nei villaggi ghanesi?
Si fa molta fatica, ci si deve procurare l’acqua: ai ruscelli o ai pozzi più vicini – che spesso non sono affatto vicini … - si va a coltivare la terra o a pescare (dipende se si tratta di villaggi interni o sulla costa), si va ai mercati per vendere e comprare. Tutto questo con un clima che non aiuta: la siccità estrema della stagione secca, i temporali violenti della stagione delle piogge. E poi non si sono né lavatrici, né lavastoviglie… (sorriso)
Vita ad Aflasco, Ghana - Foto di Antonella Sinopoli
Ci racconti del Wild Camp? Come nasce l’idea di un luogo per vivere un’esperienza di turismo ecosostenibile?
Il Wild Camp Ghana – nell’area di Keta sulla costa est del Paese, molto vicino al confine con il Togo – è un progetto nato con l’intenzione di far vivere ai visitatori un’esperienza reale in un tipico villaggio di pescatori, come ce ne sono tanti disseminati lungo la costa e sulle rive del Volta. Racconto un aneddoto: un gruppo di donne europee stava passeggiando su una spiaggia del Ghana, alloggiavano in un lussuoso resort per occidentali, a un certo punto intravedono da lontano gruppi di capanne e persone intente a tirare le reti, tutte hanno cominciato ad entrare quasi in panico e hanno deciso che non era il caso di “avventurarsi” oltre e così sono tornate indietro nel loro lussuoso resort. Questo è accaduto davvero e mostra quanto spesso sia inesistente il contatto reale tra chi visita l’Africa e gli africani. Poi – dall’altro lato – ci sono quelli che vogliono incontrare la gente del posto e vivere tra loro, ma questo è difficile perché non ci sono molte strutture veramente integrate nell’ambiente e nelle comunità locali.
Cosa dobbiamo aspettarci dunque da un’esperienza all’interno del Wild Camp? A chi è destinato?
Chi viene da noi fa una vacanza in un posto speciale. La nostra struttura è situata proprio all’interno di un villaggio di pescatori e il villaggio è nel mezzo della laguna da una parte e dell’Oceano dall’altro. Chi viene qui difficilmente dimentica il cielo immenso della notte, la vita che pulsa, la forza e la maestosità dell’Atlantico. E non dimentica nemmeno il pesce fresco... Di solito a visitarci sono persone con una certa sensibilità, attenzione, voglia di fare un’esperienza diversa. Viaggiatori che hanno voglia di arricchirsi e di conoscere davvero l’Africa dei piccoli villaggi.
One hut - foto di Antonella Sinopoli
Uno spazio comune - Foto di Antonella Sinopoli
Sei fondatrice e presidente della sezione italiana della Charity Ashanti Development. Quanto è importante per le popolazioni locali, per la loro crescita e miglioramento delle condizioni di vita, l’intervento e la presenza di organizzazioni come la vostra?
È importante nella misura in cui si riescono a programmare progetti e iniziative non seduti a tavolino – in Italia o a Londra, per dire – ma seduti in circolo insieme ai chief e agli anziani della comunità. È così che noi lavoriamo. Tutti i progetti sono decisi insieme ai rappresentanti dei villaggi e portati avanti con il loro contributo concreto. Faccio un esempio: Ashanti Development Italia grazie ai suoi sostenitori è stata in grado di realizzare un piccolo ospedale in un solo anno, ma questo non sarebbe stato possibile se tutta la comunità del villaggio non si fosse impegnata in turni di lavoro che hanno permesso di andare avanti spediti nella costruzione dell’edificio. Il miglioramento delle condizioni di vita delle comunità locali e il successo dei progetti sono possibili solo con la loro volontà e impegno. Se questi mancano, allora soldi e fatica vanno sprecati.
Che tipo di progetti promuovete e quali siete concretamente riusciti a realizzare?
Ci impegniamo nella costruzione di scuole, centri medici, pozzi. Ma facciamo anche training per gli insegnanti, corsi professionali riconosciuti dallo Stato ghanese, programmi di microcredito alle donne. E altro ancora. In due diversi villaggi abbiamo realizzato un centro medico specializzato per l’oculistica e un altro per le partorienti e le cure di prima necessità. E poi, come dicevo, scuole, aule attrezzate con computer o macchine da cucire in cui si svolgono corsi professionali. Vorrei sottolineare che i progetti vengono sempre affidati a persone e professionisti del posto. Noi facciamo perlopiù da tutor e facilitatori.
Cosa puoi raccontarci del progetto di microcredito “Yendaakyee”, sostenuto da Korai x Kente? Quanto lavoro si cela dietro l’avvio di un progetto simile?
Questo è uno dei progetti di cui andiamo più fieri. Non solo perché è rivolto alle donne – che in Africa come in tutto il mondo sono quelle che si accollano la maggior parte dell’impegno che sta nel portare avanti una famiglia. Ne andiamo fieri perché i suoi risultati sono molto soddisfacenti a fronte di un impegno in denaro che è davvero minimo. Il progetto – studiato sul modello del microcredito elaborato dal Premio Nobel per la Pace, Muhammad Yunus, definito “il banchiere dei poveri” – consiste nell’assegnare un prestito che poi verrà restituito con un interesse bassissimo, calcolato solo sulla base dell’inflazione annua. È importante dire che le somme che vengono restituite sono riutilizzate per sostenere altre donne. A lavorare a questo progetto sono molte persone – e tutte donne. Noi che raccogliamo – dall’Italia o dall’Inghilterra – i fondi; il team in Ghana che segue le donne a cui viene assegnato il prestito e, appunto, le donne dei villaggi che rientrano nel progetto. Prima di assegnare il prestito – di solito diviso in tre fasi che non superano i 150 euro – alle donne selezionate viene chiesto di fare un business plan. Ovviamente vengono aiutate, istruite e consigliate dal team che le seguirà costantemente durante il loro percorso. Per esempio: qualcuna vuole vendere al mercato abiti, qualcun altra vuole acquistare sementi per il suo pezzo di terra, qualcun altra ancora vuole avviare un negozietto per parrucchiera.
Donne del villaggio di Mapntuase, Ghana, al primo incontro su Yendaakyee
Alle donne viene richiesto di capire – e sapere – di che tipo di investimento hanno bisogno, di valutare il tipo di business e di impegnarsi nella restituzione del prestito. Al termine della prima fase – prima restituzione del prestito – potranno accedere ad un secondo e poi ad un terzo finanziamento. Tutte le donne – che sono divise in gruppi con una leader per ogni gruppo – sono sempre al corrente di come stanno andando le cose e se qualcuna manca di restituire il prestito o se ha qualche problema, tutte le altre lo sanno. Questo aiuta a fare rete e ad essere serie e determinate in quello che si sta facendo. Qualche anno fa abbiamo dato un prestito a una giovane donna con 3 figli e il quarto in arrivo. Ha aperto uno stand nel mercato locale. Dopo un anno ha deciso che voleva tornare a scuola per prendere il diploma. E, a 27 anni, lo ha fatto. E lo stand andava così bene che lo ha dato in gestione alla madre che l’aiuta tenendole la figlia più piccola quando lei è a scuola. Ecco, questo è un esempio di successo di cui andare fieri.
Come concili tutto questo con il tuo lavoro di giornalista? E cos’è rimasto o cos’è cambiato della giornalista Antonella Sinopoli di una volta?
Vivere nei villaggi non mi ha certo impedito di fare il mio lavoro. In Africa c’è Internet come in tutto il resto del mondo! Sono direttore responsabile di Voci Globali, testata online, dove ci occupiamo principalmente di tematiche riguardanti il continente africano, diritti umani, cultura e informazione digitale. Ho un blog dal titolo sintomatico, Ghanaway e recentemente ho ricevuto una interessante proposta di lavoro dal portale di notizie più seguito nel Paese e in altre aree del West Africa. La domanda che poni mi piace perché è vero che si cambia moltissimo vivendo un’esperienza così, e si cambia anche professionalmente. Oggi, amo ancor meno di prima il giornalismo fatto al desk, scrivendo di cose di cui si sa poco o nulla, scrivendo di luoghi e situazioni che non si sono mai visti e vissuti. Meglio scrivere meno – forse – che scrivere tanto di nulla o, peggio, sbagliato.
Cosa vuoi consigliare alle persone che desiderano intraprendere una scelta di vita come la tua?
Di mettere da parte i propri pregiudizi sull’Africa e i tanti, tantissimi luoghi comuni. In positivo – ma anche con esperienze che vi faranno soffrire o, comunque, riflettere – imparerete molto altro. E questa diventerà la “vostra” – e solo vostra - autentica conoscenza del piccolo pezzo di Africa con cui siete entrati in contatto.
Qual è il regalo più bello che hai ricevuto dalla tua nuova vita in Ghana?
Quello materiale: dei meravigliosi abiti kente. Me li hanno regalati il chief e la comunità di anziani di Adutwam, un piccolo villaggetto dell’area Ashanti, quando mi hanno assegnato il “titolo” di queen mother. Quello immateriale: il bambino che mi ha fatto compagnia, ha passeggiato e giocato con me sulla spiaggia quel giorno che mi sentivo sola e triste e non avevo nessuno a cui dirlo.
Due Queen Mother al lavoro - foto di Antonella Sinopoli
Una vita di importanti sfide e di grandi successi. Cosa c’è oggi all’orizzonte della vita di Antonella? Quale il prossimo traguardo per il nuovo anno?
Imparare sempre cose nuove, continuare a dare questa opportunità anche ad altri – attraverso la mia piccola esperienza e il piccolo Wild Camp Ghana. E poi viaggiare e viaggiare; scrivere e ancora scrivere…